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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna

[ Sellerio, Palermo 2013 ]

Appena uscito, l’ultimo dei romanzi storici di Camilleri ha raggiunto come al solito la vetta delle classifiche. Non vi è dubbio che Camilleri sia l’autore italiano più venduto e popolare, oltre la ristretta cerchia dei lettori colti, e anche il più noto all’estero. Nonostante egli aspiri a valorizzare la propria produzione complessiva, al di là della fortunata serie dei Montalbano, quest’ultima gli rimane appiccicata addosso, complice una critica militante che gli ha rimproverato persino di essere sapientemente “auto- seriato”. C’è una bella dose di snobismo, non fosse altro perché Camilleri è autore sperimentale della lingua e delle forme narrative.

Ha inventato una lingua, il siciliano di Vigata, paragonabile alle lingue sperimentali, ma vive nella loro radice dialettale, come il romanesco di Gadda, o il partenopeo di De Filippo o il lombardo di Fo; ha praticato il romanzo epistolare, la docu-fiction ante litteram, il romanzo di critica sociale (a cui vanno ascritti i migliori Montalbano), persino una novella boccaccesca. Non gli ha fatto un buon servizio neppure Bonina, autore per Sellerio del monumentale Tutto Camilleri (2012), se arriva all’infelice paragone con Fogazzaro per l’invenzione del “piccolo mondo antico” di Vigata. Questo snobismo, venato d’invidia, dovrebbe recedere di fronte all’ultima opera, che supera le precedenti compresa La mossa del cavallo (1999), con cui condivide la sperimentazione del bilinguismo.

Il tema del doppio, che ritorna spesso in Camilleri (ad esempio in alcuni Montalbano “anomali” come La vampa d’agosto, del 2006, ma anche Le ali della sfinge, sempre del 2006, e La pazienza del ragno, del 2004) domina l’intero romanzo fin dal titolo. La rivoluzione della luna da una parte indica la durata del regno, “rivoluzionario” per i provvedimenti presi a favore dei diseredati, dell’unico viceré donna della storia siciliana, i 28 giorni del governo di Donna Eleonora di Mora; dall’altra allude al ciclo femminile perché «chistu lu sanno i fìmmini e lu mari / che cu ‘a luna sunno sempri appattati», secondo i versi del poeta di taverna che salutano la partenza di Donna Eleonora e chiudono il romanzo, a significare che solo una donna poteva fare quella “rivoluzione”.

Doppia è la forma linguistica scelta: l’alternarsi del siciliano e dell’italo-spagnolo di Eleonora, con esiti di irresistibile umorismo, che appunto supera la diglossia di La mossa del cavallo. Doppi sono i luoghi: la scena delle infamie sessuali del potere, l’Opera Pia delle vergini periclitanti, che nasconde un vero e proprio postribolo; le porte d’accesso alla cappella di palazzo e al luogo dove Donna Eleonora custodisce il cadavere del marito, il viceré Angel de Guzmàn, che per volontà testamentaria l’ha lasciata erede del potere, a dire che ella sa che il suo regno non sarà lungo e che presto potrà portarsi quelle spoglie in Spagna. Vi è anche un doppio nella fine, esplicitamente definita nel titolo del capitolo finale «né lieta né amara».

Poi vi è un doppio speciale: la storia raccontata è di quell’umorismo corrosivo, con cui Camilleri ci rimanda alla critica della società corrotta in cui viviamo, legittima erede delle peggiori nefandezze delle dominazioni precedenti, ma è capace di toccare le corde delicate del sentimento con la casta relazione tra Donna Eleonora e il protomedico di corte, Don Serafino, tanto esperto come medico quanto ingenuo come amante: una levità particolare per l’autore, che rende l’opera meglio riuscita delle altre. C’è il riso più amaro e il pianto più dolce. Bonina ha invocato Lacan, autore oggi di moda tra i letterati, per spiegare la poetica di Camilleri, ma per l’ossessione del doppio filologicamente ci si dovrebbe rivolgere al Freud del perturbante e a Jung, o forse meglio al concetto di simmetrico di Matte Blanco, secondo il quale per l’inconscio questo è insieme anche il suo opposto.

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